Qual è l’unica cosa che non cambia mai?

Il cambiamento… si dice che l’unica cosa che non cambia è il cambiamento. Una specie di paradosso in cui tutti – persone, animali, natura, società – sono costretti ad un movimento perpetuo che li porta ad incontrare se stessi ancora e ancora. A volte questo cambiamento ci piace, siamo in armonia con esso; a volte invece per niente.
A volte vorremmo cambiare verso una certa direzione e non riusciamo; altre non ci rendiamo conto di quanto bisogno avremmo di cambiare, di voltare pagina e respirare aria nuova.
Quali sono le cause del nostro stagnare?
Nella mia esperienza, la mia personale e quella delle persone che vengono a fare mindfulness, non riusciamo a cambiare le cose finché non abbiamo toccato il fondo. Toccare il fondo è una questione soggettiva: corrisponde a quel momento in cui decidiamo con il cuore di smettere di farci del male ancora. È quando ci diciamo: adesso basta, sono stanca di soffrire per questo, voglio cambiare rotta. E niente e nessuno mi impedirà di farlo.
Purtroppo questo movimento verso una destinazione diversa può avvenire adesso o anche tra un anno, o tre anni; dipende da quanto tempo impiega il nostro cuore a smettere di sperare, a invertire il senso di marcia e cominciare ad avere fiducia in sé stesso.
Finché speriamo che le cose cambino là fuori, che migliorino o che gli ostacoli magicamente si dissolvano, rischiamo di rimanere stagnanti o bloccati ancora per altro tempo. In compagnia di un senso di fallimento e anche un po’ di autocommiserazione. Vediamo gli altri che sembrano volare, e noi che non riusciamo a cavarci dalla situazione difficile in cui ci troviamo. Crediamo che dipenda da fattori esterni, che non possiamo controllare, che ci portano ad un senso di impotenza e ingiustizia.
Finché un bel giorno capiamo che i fattori esterni non rappresentano che una piccola parte del puzzle. La questione invece (e per fortuna!) dipende soprattutto da noi e dal nostro modo di pensare a noi stessi. Dipende dal modo in cui ci parliamo e ci raccontiamo la storia.
Mi ricordo di Paola, che non riusciva ad uscire da una situazione precaria in cui dipendeva dall’ex marito in tutto e per tutto; ma siccome era convinta di non avere alternative (anche per non compromettere i rapporti con i figli diceva lei, e aggiungiamoci anche la classica questione “di principio” in cui pretendeva che le cose fossero condotte in un certo modo); per tutte queste ragioni non riusciva a uscire dalla dinamica di sofferenza. E più ci rimaniamo invischiati dentro, più la dinamica in sé si sclerotizza, come una arteria parzialmente ostruita, che continua a irrigidirsi e a ostruirsi. Il sangue non passa, l’ossigeno non arriva ai tessuti. Più assecondiamo i meccanismi, più quelli si rinforzano. Poi diventa davvero difficilissimo il movimento per uscirne, come partorire di nuovo noi stessi con grande fatica. Più aspettiamo, peggio diventa.
Le storie fanno tutta la differenza 
La maggior parte della sofferenza che affrontiamo quotidianamente viene dal modo in cui ci raccontiamo la nostra storia e dal fatto che non abbiamo davvero toccato il fondo, ma stiamo ancora sperando che le cose cambino là fuori. Che qualcuno si comporti come dovrebbe, che il mondo sia più giusto, che tutti rispettino i loro doveri e riconoscano i nostri diritti.
Eppure lo sappiamo già: le cose non cambiano là fuori se non siamo disposti a rischiare di avventurarci in un territorio nuovo, un pensiero nuovo, l’apertura ad un modo di vivere che non avevamo ancora abbracciato prima. Questo costa una certa fatica, certo. Ma la fatica è soprattutto quella del primo passo, carico di paura e di conflitto. Poi invece, man mano continuiamo a camminare in una direzione nuova, guadagniamo sicurezza e senso di integrità. Finalmente siamo più liberi, tutti interi e pieni di un senso di appagamento profondo. E magari ci diciamo: ma perché non l’ho fatto prima?
Davvero: perché non lo fai adesso? Come sarebbe se osassi, proprio adesso?
Come si fa allora?
Come abbiamo visto, il primo movimento indispensabile è quello in cui ci diciamo che ne abbiamo abbastanza. Ma davvero, dal profondo del cuore. Qualsiasi posizione intermedia rischia di compromettere la nostra capacità di rimanere saldi e risoluti sulla nuova strada.
Formulare una retta intenzione, direbbe la dottrina buddhista, guardando dentro noi stessi e riconoscendo i nostri bisogni profondi, il bisogno di indipendenza e libertà, il desiderio di muoversi nella vita secondo i nostri valori, il fatto che possiamo riprenderci in mano il potere di cambiare, sta solo in noi (a proposito di Paola e della sua situazione stagnante). La retta intenzione non riguarda direttamente il “cosa” fare dopo; ma il “come” guardare a noi stessi da questo momento in poi. Le azioni concrete (e rette, secondo il Dharma buddhista) vengono di conseguenza e possono essere dettate da una analisi della situazione reale in cui ci troviamo; ma solo dopo che ci siamo presi la responsabilità con noi stessi della nostra felicità.
La mindfulness, la consapevolezza in azione, ci aiuta proprio nel riconnetterci a noi stessi, al nostro valore intrinseco, ai desideri e alle aspirazioni che per noi sono importanti, che ci fanno felici e che non verranno realizzati senza un po’ di sforzo da parte nostra. “E non lasciare andare un giorno per ritrovar te stesso, figlio di un cielo così bello, perché la vita è adesso.” cantava il mitico Claudio Baglioni, e sono d’accordo con lui: la vita è troppo preziosa per non godercela fino in fondo.