Due lezioni dalla vita

Con il Sangha su zoom del lunedì e anche con quello in presenza a Ferrara stiamo leggendo un libro che si intitola “L’arte di saper fallire”, di Elizabeth Day. Non è il primo libro che leggiamo e commentiamo insieme che parla di catastrofi e disillusioni. Lo stesso Kabat-Zinn ha intitolato il suo primo libro “Full catastrophe living” – per dire che vivere implica anche (ma non solo) una buona dose di fallimenti. A volte sono dovuti a noi e ai nostri comportamenti, altre volte invece ci piovono dal cielo dritti in testa senza che facciamo in tempo a scansarci. Alcune volte arrivano alla fine di una serie di tentativi inutili di evitarli; altre volte sono del tutto inaspettati.

Due lezioni dalla vita

Recentemente è successo anche a me: due belle lezioni da parte della vita; due buchi nell’acqua nel giro di pochi giorni che mi hanno fatto riflettere un po’. In un caso mi sono sentita buttata via come una scarpa vecchia, un arnese inutilizzabile – una questione di lavoro che non è andata in porto: grazie di questa esperienza, mi sono detta, molto istruttiva. In un altro caso mi sono sentita l’ultima cosa da fare sulla lista delle incombenze quotidiane di qualcun altro – e qui si tratta di una questione di relazioni. Grazie, mi sono ripetuta, lezione altrettanto istruttiva!
In entrambi i casi mi ero anche impegnata un sacco per rendermi utile e magari preziosa (che buffo haha!). In entrambi i casi il feedback è stato il medesimo: non lo sei, grazie.
Ora, è molto interessante questa lettura che ne ho dato a botta fresca: mi sono sentita un po’ come la povera piccola fiammiferaia che viene lasciata morire di freddo sotto al ponte mentre nevica – e tutti gli altri a godersela in casa con il camino acceso a scartare regali. Naturalmente ciascuno di noi lo sa, quando si sente così, che non è l’unico sulla faccia della terra a sentirsi rifiutato. Però non ci va tanto a genio ricordarci che ci sono migliaia (forse milioni) di persone che si trovano in condizioni peggiori della nostra – oppure sì, ce lo ricordiamo di aver visto per il telegiornale immagini durissime, ma non fa nessuna differenza al lato pratico.

Ho fallito oppure sono fallita?

Quindi mi sento di aver fallito (e da qui al pensare che sono un fallimento la strada è breve) e se mi guardo attorno riesco a vedere soltanto persone che se la passano molto meglio di me. Che hanno un buon lavoro – gratificante e sicuro, delle relazioni soddisfacenti, una salute ottima, una certa fortuna che li sostiene, una famiglia affettuosa, colleghi simpatici, nessun problema economico. Com’è che io invece non funziono? Cosa ho fatto di male? Cosa ho sbagliato nella vita?
Questo ragionamento di solito ci intrappola nel meccanismo del: così come sono non vado bene, devo cambiare, devo diventare migliore, così nessuno più mi butterà via come una scarpa vecchia, né si permetterà di mettermi all’ultimo posto nella sua lista. Quindi dipende tutto da me, dal mio comportamento, che determina il mio destino (e la mia felicità).
Altra cosa che facciamo raramente è ricordarci di quando siamo stati noi a rifiutare o ignorare qualcun altro. Magari siamo stati noi che abbiamo detto di no senza tanti complimenti; che abbiamo voltato la faccia da un’altra parte o abbiamo ignorato una persona. Forse se facciamo quello che mia nonna chiamava un “esame di coscienza” scopriamo che anche noi siamo stati i cattivi di una situazione, che hanno ignorato la piccola fiammiferaia che languiva sotto al solito ponte. Questo non per farci venire i sensi di colpa, ma per ridimensionare le proporzioni del “dramma” che stiamo vivendo.

Un libro sul fallimento (uno dei tanti)

Insomma allora cosa devo fare, cosa devo pensare? Come la risolvo questa cosa del fallimento? Ecco, credo che non si possa risolvere! Credo che la cosa migliore che possiamo fare è accettare che le cose vadano storte e che la vita non ci accontenti. Certo, non senza esserci fatti il famoso esame di coscienza, in cui con umiltà proviamo a vedere se in certi casi abbiamo magari frainteso una situazione, se abbiamo dormito sugli allori o procastinato dall’affrontare un problema che dovevamo guardare già da tempo; se abbiamo preteso che ci andasse liscia perché “ce lo meritiamo”, o se abbiamo davvero toppato qualcosa. 
L’autrice del libro di cui parlavo prima individua addirittura 7 principi dell’arte di saper fallire:
  1. Il fallimento esiste; e su questo non possiamo metterci a discutere. Anche quando esiste nella nostra vita, quando esiste nel momento peggiore, o quando esiste ed eravamo già sfiniti per una serie di altre fatiche o fallimenti precedenti. Finché non accettiamo che tocchi anche a noi, finché pretendiamo di evitarlo, o di controllarlo, siamo destinati a peggiorare la situazione con le nostre stesse mani.
  2. Noi non siamo i nostri pensieri più cupi. Come quando ci viene in mente che siamo un fallimento di persona; o che non ce la faremo, non riusciremo più a venirne fuori. Se possiamo imparare (e con la mindfulness lavoriamo proprio su questo) a distinguere i pensieri da chi li pensa e le emozioni da chi le prova, allora stiamo facendo un passo avanti per creare uno spazio di gentilezza e comprensione vera di ciò che ci sta accadendo.
  3. Quasi tutti pensano di aver fallito tra i 20 e i 30 anni. Be’ a quanto pare quel decennio sembra essere una chiave di volta per le scelte importanti della vita: la persona che sposiamo, la carriera che scegliamo, la città dove ci stabiliamo, il conto in banca che cominciamo ad accumulare. L’autrice fa una serie di esempi concreti di persone che si sono sentite sotto pressione in questa fase della vita e che hanno pensato di dover dimostrare di essere all’altezza. E hanno fallito in tanti modi diversi…
  4. Le separazioni non sono una tragedia: una relazione non è un fallimento perché finisce. A volte è un successo proprio perché è finita, e abbiamo ottenuto la conoscenza necessaria di cui avevamo bisogno in quel momento per evolverci. Tutte cose che sappiamo già in teoria, ma quando capita a noi di terminare una relazione sentimentale, in particolare quelle che finiscono male, dove non c’è più la possibilità di parlare o di spiegarsi, ne facciamo un dramma. E a volte un po’ lo è.
  5. Un fallimento è un’acquisizione di dati. “E se tutti cominciassimo a considerare un fallimento non come una cosa che ci manda a fondo, ma come una cosa che può aiutarci a risorgere, un’informazione necessaria che ci aiuterà a compiere il passo successivo?” …Se quando ci troviamo di fronte a una crisi riusciamo ad affrontare l’esperienza al netto della paura che ci procura e dell’ego che pretende di essere il protagonista, forse vedremmo il fallimento per quello che è: non come una cosa che ci definisce, ma come un’informazione mancante che ci aiuta a completare il puzzle di chi siamo veramente.
  6. Non esiste una versione futura di te stesso. E qui devo dire che è quello che ci ripetiamo fino allo sfinimento quando facciamo le classi di mindfulness. Quella frasetta del tipo “la versione migliore (futura) di me stessa” – quella che cerco continuamento di raggiungere, mai soddisfatta del risultato, mai sufficiente ai miei occhi – ebbene, quella versione mitica NON ESISTE. C’è la versione di questo momento, che ha enorme valore, senza la quale non ci saranno altre versioni (ipoteticamente migliori) di me stessa. Se non partiamo dalla nostra interezza che si realizza esattamente ora, nel momento presente, che contiene tutto e non ha bisogno di nulla di più – se non riusciamo a realizzare questo, sarà ben difficile immaginarci qualsiasi altra versione. Eppure ci ricadiamo continuamente, nell’idea che la felicità e la perfezione arriveranno un giorno futuro, se sono abbastanza brava da realizzarle (e se vivo abbastanza a lungo da arrivarci). L’orizzonte non esiste: è un concetto e si sposta in avanti man mano noi camminiamo.
  7. La nostra vulnerabilità è la fonte della vera forza. La forza emotiva, proprio come il suo equivalente fisico dice l’autrice, è un muscolo che si sviluppa solo se allenato. Ed è solo quando decidiamo di affrontare il fallimento con umiltà, cercando di vedere dove abbiamo sbagliato e accettare come questo ci fa sentire, che riusciamo a trasformare i punti deboli in leve per il cambiamento. E ammettere le nostre debolezze e i punti dove ci sentiamo scoperti di solito ci avvicina agli altri, ci rende più umani e meno rigidi di fronte al prossimo e di fronte alla vita.
Che ci regalerà comunque altri fallimenti.

4 thoughts on “Due lezioni dalla vita

  • Ormai sono anni che dico ai miei familiari di smetterla di cercare di cambiarmi. Non ci sono riuscita e non voglio sprecare le briciole che mi restano nel provarci ancora. Sono così basta! Da prendere o lasciare liberamente

    • Elisa Quietroom

      6 Dicembre 2021 at 23:31

      Rita cara, la forza e la fragilità sono due facce della stessa medaglia. Grazie di essere passata a di aver lasciato la tua testimonianza! Un abbraccio!

  • Mi dispiace Elisa per i tuoi fallimenti, se ti può essere d’aiuto, con me stai facendo un ottimo lavoro. A presto,
    Elisa

Comments are closed.