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È diventato il mio leit motif di questi ultimi tempi, e se incrocio continuamente articoli e post che parlano di riposo, pausa, rallentare… un motivo ci sarà.
Non è che sto correndo troppo? Non è che sto facendo troppe cose?
Anche un’insegnante di Mindfulness, per quanto tenti di essere consapevole dei suoi limiti, a volte ci va a sbattere contro!
Questo post perciò parla di rallentare, prendersi una pausa, premere il tasto stop quando ci rendiamo conto che la stanchezza diventa una delle parole più utilizzate del vocabolario quotidiano.
E poco importa se siamo solo all’inizio dell’anno; anzi proprio perché siamo all’inizio dell’anno forse potremmo cominciare con il piede giusto e iniziare a togliere, invece di aggiungere; a rallentare invece di accelerare, ad ascoltarci invece di marciare come dei soldati in direzione dei risultati.
Siamo tutti molto impostati sull’ottenere quello che ci interessa, sul raggiungere una meta. In base a questo si costruisce la nostra “autostima”, ovvero un’opinione positiva di noi stessi, che siamo stati in grado di spuntare la casella sull’ennesima cosa da fare. Che siamo stati all’altezza delle nostre aspettative, bravi, veloci, performanti (che parola tronfia!).
C’è di mezzo l’idea che ciascuno di noi ha di se stesso e l’impegno che ci mettiamo per confermarla, non deluderla; per sentirci a posto. E a quanto pare siamo disposti a sacrificare molto del nostro tempo e di ciò che siamo davvero sull’altare di questo despota, che in cambio ci fa sentire adeguati.
Perciò: in marcia!
Ma noto anche che attorno a questo moto perpetuo al quale tutti ci sottoponiamo c’è questa ambivalenza: da un lato desideriamo tanto riposarci, ma poi siamo ansiosi se ci sentiamo pigri e improduttivi. Ci sentiamo in colpa se non facciamo niente, oppure se facciamo in modo da non aver niente da fare, ci annoiamo a morte.
Pieno e vuoto
Non sarà anche per caso il nostro sentirci a disagio nel “vuoto” di cose da fare? Non sarà che abbiamo la sensazione di fare qualcosa di buono solo quando facciamo concretamente qualcosa, quando riempiamo il tempo e lo spazio?
La percezione comune che abbiamo è che tutte le cose debbano essere “piene” e che il vuoto sia la mancanza del pieno. Questa impressione ci viene confermata a partire dalla concezione aristotelica del mondo, secondo cui Natura abhorret a vacuo, la natura rifiuta il vuoto.
Invece nella tradizioni sapienziali orientali l’idea di vuoto è sinonimo di infinita ricchezza di possibilità, di libertà di espressione.
Per il taoismo il vuoto è costitutivo dell’universo tanto quanto il pieno. Nel Tao Te Ching di Lao Tsu si dice:
“Trenta raggi convergono sul mozzo
Ma è il foro al centro che
Permette di usare la ruota.
Si plasma un recipiente con l’argilla
Ma è lo spazio all’interno che lo rende utile.
Scolpite con maestria porte e finestre
Ma è lo spazio vuoto della stanza che si usa.
L’utilità di ciò che è
Dipende da ciò che non è.”
Lao Tsu, Tao Te Ching, 21
Secondo il pensiero orientale tutto ciò che esiste (l’universo) ha origine da ciò che non esiste. La forma è generata dal senza forma. Questa esistenza prima dell’esistenza, una sorta di potenzialità non ancora espressa, è indicata come Tao. Tao è l’inesprimibile, l’inspiegabile, l’unità indifferenziata ma feconda, da cui nasce la vita.
La scienza in realtà è molto vicina alla visione taoista: in particolare la meccanica quantistica mentre descrive il comportamento delle particelle subatomiche, ha una visione del tutto simile di vuoto. Lo descrive pervaso da continue fluttuazioni energetiche dalle quali si genera materia. Lo spazio vuoto dunque non lo è affatto, ma appare tale solo perché la creazione e la distruzione incessante di particelle si verifica in intervalli temporali brevissimi, tali da non lasciare il tempo per la loro rilevazione.
Per l’Oriente il vuoto non è un concetto negativo e non è da confondere con un’assenza. È invece come una cavità ricolma di possibilità pronta ad accogliere, a ricevere e a dare. Il vuoto è indefinito, indifferenziato e, quindi, con infinite possibilità di trasformazione.
Noi però tendiamo ad essere sempre pieni; il nostro tempo è pieno, i nostri spazi sono pieni. Le nostre case sono piene di mobili, vestiti, scarpe, elettrodomestici e tanto altro; e siamo anche pieni di giudizi, idee, credenze, conoscenze, preferenze, stati d’animo ed emozioni vecchie e stagnanti, che abbiamo accumulato nel corso della vita ed ereditato dalla famiglia e dall’intera società.
Ho l’impressione che solo creando un po’ di vuoto, dandoci un po’ di tempo vuoto e di riposo, nella nostra vita possa venire a galla la possibilità di qualcosa di nuovo. Da cui ricominciare e da coltivare per nutrire la nostra vita.
In modo che gli spazi vuoti di riposo possiamo percepirli non tanto come un residuo casuale della giornata o della settimana, ma come parte integrante di ciò che siamo e abbiamo bisogno di essere.
“Oggi volo basso e non dico una parola.
Lascio che gli incantesimi dell’ambizione vadano a dormire.
Il mondo continua come deve,
le api in giardino ronzano un po ‘,
i pesci saltano, i moscerini vengono mangiati.
E così via.
Invece, mi prendo un giorno libero.
Silenzioso come una piuma.
Mi muovo appena anche se in realtà sto viaggiando a una distanza eccezionale.
L’immobilità.
Una delle porte del Tempio. “
Mary Oliver
(traduzione mia)
11 Febbraio 2020 at 0:40
Io che di tempo ne ho quanto ne voglio in quanto in prepensionamento allora per me il vuoto , prendersi un po’ di tempo per pensare ( penso anche troppo), come devo fare? Mi sento in colpa che non son riuscito a finire il mio lavoro . Sbaglio? Saro’ stato malato ma per me non fa differenza: mi sento in colpa lo stesso.
11 Febbraio 2020 at 10:15
Ciao Mauro, mi sembra di capire che c’è un senso di frustrazione e di amarezza (e senso di colpa) per non aver potuto continuare a lavorare; e poi anche che il tempo vuoto diventa tempo in cui hai fin troppa possibilità di pensare – e forse questo aumenta il senso di colpa e amarezza…
Mi spiace, a volte le cose non vanno come immaginavamo, ed è spiazzante!
…Forse si può ricominciare proprio guardando da vicino il senso di colpa? Non tanto per analizzarlo, che poi ci si perde in mezzo ai ragionamenti; ma cercando il bandolo della matassa per esempio nelle sensazioni del corpo che il senso di colpa ti provoca.
Come sarebbe provare a imparare dalle sensazioni (anche difficili) che ci sono per ritrovare la strada?
Mi rendo conto che questo è un argomento ampio, e meriterebbe tanto ascolto e presenza. La mindfulness ci offre degli strumenti che sono davvero alla portata di tutti, ma ci vuole un po’ di pratica.
…Be’ noi siamo qua!
Un abbraccio
e.