Stare in silenzio

“Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una cosa sola: la loro incapacità di starsene tranquilli in una stanza” Blaise Pascal

Abituata a condurre incontri di Mindfulness a scuola ogni mattina, con i ragazzi di prima media, e dovendo “insegnare” il silenzio, mi confronto ogni giorno con questo argomento.

A volte è difficilissimo ottenerlo in classe. A volte i ragazzi sono così pieni di parole, emozioni e pensieri, che zampillano da tutto quello che fanno, che è quasi impossibile ottenere una pausa. In questi casi, mi è accaduto di adottare il metodo: sto in piedi, immobile, rivolta a loro, con espressione sorridente – quando proprio me la vedo brutta. Senza fare niente, solo stando con quello che c’è (cioè una classe agitata), piano piano gli animi si placano, e anche loro, dopo qualche minuto cominciano a fermarsi e a ricomporsi. È qualcosa di magico quando possiamo fare silenzio insieme, condividiamo così solo quello che siamo, al di là delle parole, delle emozioni, delle reazioni del momento. Stiamo lì e viviamo, insieme. Con una campanella che ci aiuta a scandire il tempo e a onorarlo. Alcune delle mie classi – le più agitate – mi insegnano cos’è il silenzio e com’è nutriente. E io le ringrazio di cuore!

Ho letto un libro interessante sull’argomento (veramente più di uno, ma adesso vi parlo di questo), scritto da una monaca zen 2.0 – come si definisce lei – che si chiama Kankyo Tannier. È francese e vive nei paraggi di Strasburgo. È monaca da una quindicina di anni ma si occupa anche di comunicazione, di canto e di ipnosi. Oltre ad avere un compagno e ad amare moltissimo i cavalli. Insomma, un bel mix.

Nel suo libro La cura del silenzio, ce lo racconta in modo ampio e con un sacco di aneddoti che le sono accaduti in questi anni di studio, ricerca e silenzio. Dai suoi primi esperimenti in un monastero zen in Giappone (periodo durissimo, anche per la difficoltà a confrontarsi con la cultura di un monastero zen vero e proprio) al modo in cui si può vivere il silenzio assieme agli animali che amiamo – i gatti e i cavalli per lei – al modo in cui il mondo attorno a noi faccia di tutto per non permetterci di stare in silenzio con noi stessi, in una sorta di ipnosi collettiva di stimoli di qualunque tipo. Siamo continuamente distratti da noi stessi, nel tentativo di ricolmare una mancanza primordiale, un bisogno inesauribile di sapere che ci siamo, che esistiamo – che siamo amati, che siamo utili, che siamo vivi. E per farlo mettiamo in atto tutta una serie di strategie che non fanno altro che andare nella direzione della dispersione, dell’allontanamento, della separazione da noi stessi. Buddha lo sapeva bene, siamo colpiti da una sorta di insoddisfazione cronica, che cerchiamo di placare con tutto quello che là fuori – fuori da noi – ci sembra possa funzionare. Lavoro, relazioni, dipendenze varie, moto perpetuo.

Come si fa allora? Si cerca di fare un po’ di silenzio.

E Kankyo ci suggerisce alcuni esercizi utili…

  1. Ripulire e rilassare lo sguardo, in modo che si rivolga dentro di noi, piuttosto che al di fuori, alla ricerca della “soluzione” al malessere della mancanza. Abbassare gli occhi e respirare per qualche minuto, anche nel bel mezzo di una giornata intensa, può essere d’aiuto. Oppure alzare lo sguardo, e rivolgerlo al cielo, alle nuvole o ad una notte stellata, è un balsamo per le nostre anime agitate.
  2. Notare la tendenza automatica a definire le cose e le persone. Abbiamo così tanta paura di incontrare ciò che è sconosciuto, che ci precipitiamo a definirlo. Lo vedo anche io a scuola, con il famoso “esercizio dell’uvetta” (in cui assaggiamo un chicco di uva passa, come se non l’avessimo mai fatto prima), in cui i ragazzi tendono a voler individuare subito che cosa dovranno assaggiare, per dargli un nome. Una volta che dicono a se stessi “uva passa”, ecco che parte il carosello dei mi piace-non mi piace. Ma è quello che ognuno di noi fa molto spesso con le esperienze della vita, da quelle piccole, come un chicco d’uva, a quelle grandi, come le relazioni, i conflitti, le emozioni.
    Una volta che abbiamo individuato la nostra tendenza innata a definire e classificare, a giudicare, possiamo imparare a tacere: “le parole che non abbiamo pronunciato sono i fiori del silenzio” (secondo un proverbio giapponese). Praticare il Nobile Silenzio, come lo chiama il Buddha serve non tanto a soffocare il nostro “diritto” a dire qualsiasi cosa ci viene in mente; ma piuttosto a placare la mente discorsiva che gira su se stessa come un disco rotto.
  3. Imparare a sentire con il corpo. Rudolf Steiner, pedagogo e fondatore delle scuole che portano il suo nome, diceva che i bambini del XX secolo sono come dei palloncini, composti da un grosso pallone (la testa) e da una piccola cordicella, quello che c’è sotto la testa. A scuola, nessuno insegna loro a gestire le emozioni, non sanno come funzionano i pensieri, hanno paura di essere sopraffatti e quindi preferiscono isolarsi prendendo tutte le scappatoie che la società moderna offre: dipendenze, device elettronici, droghe, e tanto altro. Perché è così difficile “tornare al corpo”? Perché il corpo – dice Kankyo – è in stretto contatto con il reale, anche il reale delle emozioni. Isolarsi dal corpo permette di evitare qualsiasi emozione negativa e rimanere sulla superficie…finché il corpo non ci scuote con uno di quei mali psicosomatici che è bravissimo a creare… ecco perciò il suggerimento di riavvicinarci al corpo e imparare a sentire.

E per concludere, Kankyo suggerisce di dedicare un’ora o due, o anche tutto un giorno, al silenzio. Un silenzio programmato, che possiamo comunicare in anticipo ai familiari, progettato in modo che sia tempo libero, senza telefono, né doveri da rispettare. Un tempo in cui mangiare in silenzio, meditare, osservare il panorama fuori dalla finestra. Ma anche un momento per uscire di casa (in silenzio) e passeggiare con calma per le strade che conosciamo già, per osservarle con occhi nuovi, e poi magari tornare a casa, farsi una doccia calda e riportare le impressioni della giornata su un diario. Fare poche cose e una alla volta. Semplificare, tornare a respirare.
Addomesticare la mancanza insomma, in modo che non sia più così urgente, in modo da smettere di cercare qualcosa là fuori che la colmi, o qualcuno a cui dare la colpa quando ci prende per la gola. Fare amicizia con chi siamo, radicalmente.

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