Ci sono cinque ostacoli, che tradizionalmente vengono considerati come impedimenti alla pratica di Mindfulness. Chiunque si sia seduto per provarla, probabilmente li ha sperimentati tutti, prima o poi (me compresa, ovviamente!).
Ma prima di arrivare ad una panoramica degli ostacoli come da manuale, è interessante prendere in considerazione le eventuali “resistenze” che potremmo vivere dentro di noi nei confronti della pratica.
Può darsi infatti che ci siamo detti una serie di: non sarò mai capace di stare seduto fermo, non troverò il tempo, non riesco a eliminare i pensieri, non noto nessun miglioramento mentre sto seduto, perciò forse sto sbagliando qualcosa…
Bè, è tutto normale! È perfettamente umano pensare che così non vada bene e che stiamo sbagliando qualcosa (o che non riusciremo MAI a praticare): la mente mette in atto una serie di strategie per evitare di incontrare se stessa! Non perché siamo “cattivi”, ma anche solo perché non siamo abituati a fermarci e a stare con noi stessi, perché non è la cosa più naturale che ci viene in mente di fare, perché è talmente controintuitivo che ci sembra impossibile che possa funzionare.
Vorrei dirvi che probabilmente tutti (o almeno la buonissima parte di chi pratica) ha pensato questi pensieri nei primi tempi di pratica di Mindfulness. Sono solo pensieri – poi ci si abitua a riconoscerlo – che la mente produce probabilmente per paura, senz’altro per ignoranza.
Perciò se avete pensato di non riuscire/potere/essere adatti, significa che siete sulla buona strada! State andando nella direzione più utile: insistete, continuate, abbiate fiducia in voi stessi 🙂
Detto questo, secondo i testi buddhisti (che sono un’immensa biblioteca di saggezza sulla pratica di conoscenza di sé) ci sarebbero 5 ostacoli che tradizionalmente impedirebbero la pratica della meditazione, che sono:
il “desiderio” dei cinque sensi – una sorta di attaccamento al mondo dei fenomeni e delle cose, che ci distrae dalla pratica di ricerca e di osservazione di noi stessi;
la cattiva volontà (o malevolenza), che potremmo manifestare nei confronti di noi stessi (non riuscirò mai a stare qui fermo, seduto in silenzio!) che si traduce in sfiducia e desiderio di abbandonare la pratica. In questo caso l’antidoto è la pratica di amorevole gentilezza verso se stessi, verso le proprie difficoltà e i propri limiti, in modo che anche questa parte di noi venga vista, accolta e amata. Non per giustificarci o trovare un alibi, ma semplicemente per accoglierci in questa nostra difficoltà molto umana.
I testi descrivono poi il grande ostacolo della sonnolenza e del torpore, che ci trascinano nell’inerzia e nella paralisi di fronte a noi stessi. A volte si tratta di noia pura e semplice, a volte si tratta di distrazione (che ore saranno? non suona mai la campana?) a volte di una forma più sottile di pigrizia annoiata, quella che ci fa perdere in mille preoccupazioni secondarie, tanto da abbandonare la pratica. Qui l’antidoto è la curiosità: quando risvegliamo in noi la curiosità nei confronti di ciò che ci sembra noioso – come il fatto di tornare sempre al respiro, per esempio – e proviamo a notare quello che sembra scontato o trascurabile, scopriamo un universo in cambiamento. Scopriamo le nostre profondità, sempre nuove, sempre diverse.
Quarto ostacolo: l’inquietudine, l’insofferenza che ci fa agitare sul cuscino o sulla sedia e ci fa desiderare di alzarci e andarcene. Bisogna ammetterlo, stare fermi seduti a osservare ciò che siamo, può non essere piacevole. Ci può mettere a disagio, ci può disturbare; quando lo facciamo scopriamo che è difficile e ci vuole molto coraggio e molta disciplina. La mente si agita e il corpo anche. Improvvisamente sentiamo male alla schiena e al collo; caldo o freddo, formicolii mai avvertiti prima e tutto un carosello interessante di piccoli grandi dolori. Che fare? Sorriderne, vi direi! Siamo proprio bravi a trovare dei diversivi o dei motivi per cui, ragionevolmente, non possiamo più continuare a stare fermi seduti lì. Impossibile, inaccettabile!
…Invece, proviamo a coltivare l’interesse per quello che il corpo e la mente ci comunicano, come se ascoltassimo i maldestri tentativi di parlare di un bambino piccolo.
Con amore.
Ultimo ostacolo, il dubbio. Che viene descritto come quando ci perdiamo in un luogo desolato e non abbiamo più punti di riferimento. Mettiamo in dubbio tutto: il senso della pratica, la sua validità, la sua utilità. Siamo disorientati. Anche questo può accadere e l’antidoto è (come anche per gli altri 4 ostacoli), coltivare la fiducia in noi stessi, ma anche trovare un luogo e una comunità di altre persone che praticano che ci sostenga, e (anche) far riferimento ad un insegnante che all’occorrenza ci può sostenere e confortare.
E comunque, il fatto di affrontare gli ostacoli che abbiamo visto fin qui è solo parte del lavoro. Una delle idee più radicate quando facciamo pratica di mindfulness da un po’ di tempo è quella di pensare che, se pratichiamo bene, se ci impegnamo davvero e in modo serio, se diventiamo proprio bravi nell’osservazione di noi stessi, allora potremo evitare di soffrire. Non soffriremo più come gli altri, perché la consapevolezza ci eviterà di soffrire e di cadere nelle solite trappole in cui cadono tutti.
Chögyam Trungpa Rinpoche, un maestro tibetano, chiama questo atteggiamento “materialismo”, che per lui è quel modo di porsi che affronta qualsiasi esperienza come se si potesse farne merce di scambio: io dò questo e in cambio ottengo quello.
E individua anche i cosiddetti “tre Signori del materialismo spirituale”, che, secondo questo maestro, sono il “Signore della forma” – che si manifesta quando pensiamo “se avessi questo” o “se fossi in questo modo”, allora sarei soddisfatto e felice; e poi il “Signore della parola”, che governa le nostre parole e la comunicazione, e che dice: se solo capissi le cose correttamente – se riuscissi a comunicarle nel modo veramente corretto, allora non ci sarebbero più problemi, sarei felice e non soffrirei mai più. Infine, il “Signore della mente”, che dice: se solo io fossi un bravo meditante o un bravo praticante spirituale o di yoga o una brava persona religiosa, allora sarei immune dalla sofferenza, dai guai, dalla tristezza o dalla rabbia.
Questo è mercanteggiare, no? Io mi comporto in un certo modo, e in cambio ho la sicurezza di ottenere quest’altro.
Be’ non funziona! Ve lo posso assicurare personalmente, sono le trappole dell’ego che si sente rassicurato quando può controllare le cose attraverso l’ennesima “strategia”.
Intendiamoci, non è che sia intrinsecamente sbagliato desiderare di percorrere la strada spirituale per ottenere dei benefici per noi stessi e per gli altri; è che potremmo farne una merce di scambio per proteggerci dalla sofferenza, credendo che così saremo sicuramente felici.
Nella realtà, non sappiamo davvero cosa emergerà da una seduta di Mindfulness, forse non proprio una sensazione di gioia o di gentilezza (o forse sì!); accadrà di certo che incontreremo noi stessi così come siamo – con i dubbi, le difficoltà, la noia e la confusione di quel momento. Ed è quando lo vediamo davvero, e lo abbracciamo, che qualcosa dentro di noi si scioglie.
“Forse abbiamo studiato la filosofia occidentale o quella orientale, abbiamo praticato lo yoga o studiato sotto una quantità di grandi maestri. Crediamo di aver accumulato un bel po’ di conoscenza. Eppure, dopo tanta strada, c’è ancora qualcosa cui rinunciare. Le nostre immense collezioni di conoscenza ed esperienza fanno parte della grande vetrina dell’Io; non abbiamo fatto che creare un negozio di antiquariato”. (Chögyam Trungpa, Al di là del materialismo spirituale, Ubaldini)
nb: le foto sono mie, scattate in India, in un laboratorio artigianale di block print, la stampa su stoffa tradizionale con colori naturali (qui con indaco).