Lavorare sul resto

Lavorare sul resto, le coincidenze, le convergenze: un titolo un po’ misterioso, me ne rendo conto, ma allo stesso tempo un’occasione di connettere e riconnettere i puntini, creare ponti e collegare idee.

Connettere i puntini e costruire una mappa

Ecco una mia costante, tentare di ricollegare le cose che sono apparentemente lontane, ma che secondo me possono parlarsi, nonostante vengano da ambiti di pensiero diversi. Credo che questo ci possa aiutare ad avvicinarci alla realtà con uno sguardo più aperto e curioso.
Da dove comincio?
Dall’architettura!
Devi sapere che per un periodo della mia vita mi sono occupata di approfondire alcuni aspetti dell’arte indiana. Forse sai che ho una formazione da orientalista e una grande passione per i viaggi – soprattutto in India. A questo aggiungo che mio padre è un documentarista specializzato in archeologia.
Per alcuni anni abbiamo collaborato a progetti comuni autoprodotti, che poi lui presentava ai vari festival del settore. Per fartela breve, per un certo periodo ci siamo occupati anche dell’architettura dei templi indiani dell’India del sud.
Mi ricordo che uno degli aspetti che più mi avevano colpito, mentre studiavo per scrivere i testi, era la visione filosofica delle architetture. Il tempio indiano è costruito su una base quadrata calcolata tenendo conto della visione astrologica e cosmogonica insieme: calcoli molto precisi per inglobare nelle due dimensioni spazio-temporali riportati sulla pianta del tempio i moti del sole e della luna e la loro eclittica. Il perimetro quadrato del tempio è il simbolo del moto apparente giornaliero (e annuale) del sole e della luna, il loro allontanarsi e il loro riconciliarsi periodico: il tempo cristallizzato e riportato in pianta. Così, secondo i calcoli matematici, la pianta è costituita da una struttura a moduli di 64 o 81 quadrati. 
Il punto è che, siccome la terra ha un asse inclinato, quindi irregolare, questo determina uno “scarto” nei calcoli matematici (peccato, le cose potevano essere perfette!), che però a sua volta è l’origine dei cicli della natura: le stagioni rappresentano forse l’esempio più eclatante di questa irregolarità. “Tale ineguaglianza, tale imperfezione è la causa dell’esistenza. (…) Se così non fosse, se tutto fosse coincidenza, la vita sarebbe riassorbita nella perfezione, nell’infinito che è oltre la manifestazione” (Il tempio indù, Stella Kramrisch). 
Cosa significa tutto questo in parole povere? Questa osservazione significa che l’imperfezione (dal micro al macro) è la causa dell’esistenza; c’è sempre un “resto”, poiché nulla potrebbe continuare se nulla dovesse restare – sostiene la grammatica architettonica indù. Il posto occupato da qualcosa nel presente è causato dal suo residuo nel passato. Che dà luogo ad altri resti, che rinnoveranno il dispiegarsi del mondo. Il saṃsāra, con il suo carico di bellezza e sofferenza è dovuto a questo “scarto”, questo resto.

Perché questo discorso ci dovrebbe interessare?

Questo mi fa pensare al pensiero buddhista, quando ci invita a “trasformare il veleno in medicina”. È infatti proprio dalla sofferenza, questo grande o piccolo “residuo” che non vuole andarsene, anche se ce la mettiamo tutta a ignorare, edulcorare o evitare tutto ciò che avanza dalla vita perfetta che crediamo di meritare.
Se pensiamo a ciò che desideriamo, credo che la prima cosa che ci viene in mente è: una vita al riparo dalle difficoltà, le scocciature, il disagio. Questo vorremmo, senza magari saper precisare, se non a larghe linee quello che davvero ci occorre per vivere appieno la nostra vita. Ma siccome non si può evitare il dolore – e non si può perché il dolore è intrinseco alla vita (ma la sofferenza non lo è, dice il Buddha), ecco che da questo scarto tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è, nasce duḥkha, l’insoddisfazione di fondo che ci accompagna quasi sempre nelle nostre giornate in trincea.
Allora da lì, dal “veleno” si può ripartire, guardandolo, accogliendolo, sentendolo fino in fondo, perché solo così potremo, con la pratica, lentamente trasformarlo in medicina.

Come ci si può lavorare (anche) con il mindful coaching

Come sto cercando di spiegare in questi ultimi post, il coaching ci offre strumenti aggiuntivi alla mindfulness per emergere dalle secche della vita. È un modo di allenare autoconsapevolezza, autoefficacia e autonomia (!) attraverso altre strade, parallele alla mindfulness, ma in qualche modo convergenti. Perché se non possiamo eliminare il dolore, forse possiamo lavorare sulla sofferenza che aggiungiamo all’esperienza riducendo e trasformandola in “medicina”. E da qui partire per lucidare meglio che riusciamo lo specchio e realizzare ciò che ci sta a cuore davvero.
Lavorando sullo scarto, il residuo che emerge da una vita che non ci assomiglia più, per la quale vorremmo una trasformazione. Per la quale abbiamo una aspirazione diversa, nuova e magari non del tutto chiara.
E allora possiamo chiederci: cosa significa per me questa aspirazione in questo momento della mia vita? Perché è importante per me, cosa mi consente di esprimere di me, che ora non riesco ad esprimere? Che persona posso essere se gli do voce?
Molto spesso, in fondo ad un periodo di sofferenza, di confusione e di ristagno c’è un gioiello prezioso che non vuole altro che essere ritrovato e portato alla luce. 

Consigli di lettura

Design your life, di Bill Burnett e Dave Evans, per riprendere in mano “il progetto” della vita con un metodo contemporaneo.
Se invece ti ho stimolato con la storia e la mitologia indiane, ti consiglio Ka di Roberto Calasso, una narrazione epica dei miti fondanti il pensiero indiano hindu. Miti che sono poi scolpiti sulla pietra nel perimetro esterno dei templi indiani.

perimetro esterno del tempio di Belur, Karnataka