Quali altre pratiche di mindfulness utilizzare?

Quando facciamo un percorso di mindfulness, che si tratti del corso intensivo oppure di un percorso continuativo di pratica settimanale, ci viene proposta la pratica di “consapevolezza concentrativa”, quella cioè che ci aiuta a sviluppare la capacità di tornare al momento presente utilizzando come oggetto di attenzione il respiro. Impariamo ad ancorarci al respiro e alle sensazioni del corpo in modo che, ogni volta che l’attenzione sfugge e si perde nelle mille proiezioni della mente, abbiamo un posto dove tornare.
Questo è un modo molto diretto e allo stesso tempo graduale per imparare a notare quante volte siamo rapiti dai nostri pensieri (senza neppure accorgerci) e finiamo per vivere una vita parallela che è tutta nella mente.
Questo metodo ci aiuta a vedere cosa accade dentro di noi e a tornare alla realtà. 

Due modi per concentrarsi

La pratica concentrativa è presa a prestito dalla tradizione buddhista di meditazione di consapevolezza, che si distingue in due filoni di pratica: la meditazione śamatha e la meditazione vipassanā.
Śamatha (letteralmente “calmo dimorare”) è quando ci concentriamo su un oggetto di attenzione che ci serve come àncora e binario su cui tornare quando la mente si distrae. I movimenti di andata e ritorno del respiro, momento dopo momento, ci guidano proprio come i binari del treno, dritti verso la stazione della presenza mentale.
Quando riusciamo a seguire la traiettoria, la mente si calma e dimora in uno stato di tranquillità vigile, da qui la definizione di calmo dimorare. La prossima fermata nella meditazione śamatha è quella dell’assorbimento meditativo profondo, in cui perdiamo la percezione di separatezza fra soggetto e oggetto percepito. E dato che a quanto pare la nostra sofferenza deriva dal senso di separatezza che ci estranea da tutto ciò che esiste, ecco che con la meditazione śamatha recuperiamo questa unità e un sentire di armonia profonda e riconciliazione con l’esperienza.
La pratica di vipassanā utilizza la capacità concentrativa di śamatha per allenare la consapevolezza a notare tutto quello che entra nel campo dell’attenzione: la parola infatti significa “visione speciale”. Quando siamo calmi e concentrati possiamo vedere meglio tutto quello che ci accade, dentro e fuori. Grazie ad una migliore capacità di accorgerci, di essere consapevoli, ci calmiamo e grazie alla calma vediamo ancora meglio. I due stili perciò sono entrambi utilissimi e funzionano in modo integrato in un ciclo virtuoso quando facciamo mindfulness.

La tradizione buddhista è però ricca di diversi tipi di pratica e stili di meditazione.
Senz’altro avrai provato qualche volta a praticare la mettā, o amorevole gentilezza, una variante della concentrativa che ci aiuta a sviluppare benevolenza e amore per noi stessi e per tutti gli esseri senzienti (cioè tutti gli esseri viventi che sentono, compresi gli animali).
Nella tradizione buddhista si consiglia di iniziare il training di pratica proprio dalla gentilezza amorevole verso noi stessi, perché si dice, una volta che abbiamo sviluppato un atteggiamento caldo e accettante nei nostri confronti, concentrarci e vedere le cose senza filtri sarà più facile.
Di solito invece nei corsi di mindfulness si fa l’opposto, cioè si propone la meditazione di gentilezza amorevole solo dopo aver allenato la concentrazione.
Evidentemente si parte dal presupposto che sviluppare e consolidare amore per se stessi sia più “avanzato” che sviluppare attenzione. Credo che le cose vadano comunque di pari passo e si integrino e rafforzino a vicenda.

Ma ci sono anche altri due stili di pratica

Ci sono poi altri due stili meditativi che trovo molto utili: la meditazione analitica e la meditazione visualizzata.
La prima delle due ci invita a contemplare un panorama analitico e a soffermarci poi in contemplazione del risultato del ragionamento finché non lo assorbiamo veramente. 
Ovvero, si parte da una tesi, una affermazione e attraverso il ragionamento logico veniamo condotti ad una sintesi incontrovertibile, sulla quale cioè non abbiamo più obiezioni.
Giunti a questa conclusione in maniera stabile e priva di dubbio, si rimane in equilibrio meditativo su quello che la tradizione buddhista chiama il “sapore”, ovvero la sensazione sentita – incarnata – del risultato logico. Come quando ci capita di capire davvero un concetto o una situazione, e lo sentiamo, piuttosto che saperlo soltanto.
Questo ci dovrebbe aiutare a fare nostre tesi e concetti, come per esempio nella meditazione sull’equanimità verso tutti gli esseri, sia quelli che amiamo, sia i neutri (che magari non conosciamo neppure), sia coloro con i quali non c’è una relazione positiva. Qui la meditazione analitica ci aiuta a capire perché non c’è reale differenza tra le tre categorie positivo-negativo-neutro, e a smettere di discriminare – e dunque di soffrire. Quando capiamo davvero e incarniamo con tutto ciò che siamo una idea, quell’idea diventa la nostra realtà.

La meditazione visualizzata adotta invece altri metodi per agire profondamente su di noi direttamente sul nostro inconscio. Nella visualizzata occorre riuscire a immaginare (a vedere) alcune immagini, forme, colori, archetipi antropomorfi e così via, come se li vedessimo veramente. Un po’ come quando sogniamo, proviamo a generare contemporaneamente anche una emozione coerente e una sensazione corporea in armonia con ciò che vediamo e sentiamo emotivamente. Riuscendo a sincronizzare questi tre elementi (vista-emozione-sensazione corporea) si va a lavorare direttamente nell’inconscio e a ridefinire la definizione di noi stessi e dell’esperienza.  Questo stile meditativo è tipico di una certa parte del buddhismo, soprattutto quello tibetano, dove le meditazioni visualizzate vengono utilizzate come strumento potente e trasformativo della realtà del praticante. Il presupposto è che – come del resto dicono anche filosofi e poeti – vediamo ciò che siamo, non ciò che crediamo sia la realtà. E viceversa, siamo ciò che vediamo.
Nei corsi di mindfulness si utilizza pochissimo questo stile meditativo; forse solo con la meditazione della montagna (o del lago), che ci invita ad assimilarci alle qualità di forza, regalità e stabilità di una montagna e ad accettare le stagioni che passano su di lei, così come su di noi.

Se sei curioso di approfondire teoria e pratica della meditazione tradizionale da cui la mindfulness ha attinto, lunedì 22 marzo 2021 inizia il corso “Le radici buddhiste della mindfulness” online su Zoom.

“I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo” 

Fernando Pessoa