Nessuna ricetta: un pensiero sul mio ikigai

Questo post è una riflessione sul mio percorso fin qui: niente di conclusivo, solo due o tre cose che mi vengono in mente alle soglie dell’estate vera, quando le giornate diventano più vuote (ci voleva!) e capaci di accogliere un po’ di silenzio interiore. Una riflessione sul senso, per me, di voler insegnare Mindfulness, in un percorso di vita che a forza di piccole rivelazioni, fatiche quotidiane, errori e meraviglie, mi indica “la strada”.

Late bloomer?

Ci ho messo tanto tempo – mi dico spesso, l’ho scritto anche nelle note biografiche di questo sito, che mi considero una late bloomer, una che ci mette molto tempo a fiorire.
Altre volte invece mi sembra di averci messo proprio lo stretto indispensabile, considerato tutto quello che ho vissuto fin qui, le esperienze, gli incontri fondamentali, le letture e gli insegnamenti ricevuti, le mille cose che ho cercato di “imparare” seguendo corsi e conferenze.
Scegliendo di studiare da orientalista, prima di tutto: una scelta che quasi tutti i genitori con un figlio alle soglie dell’Università (e ne so qualcosa) avrebbero considerata assurda (i miei genitori, fortunatamente no!).
E mi viene in mente che una persona molto tempo fa mi disse che avrei dovuto assolutamente fare l’insegnante. E io che ho eluso e ignorato la possibilità (ricordandomi bene la frase che aveva pronunciato però), pentendomene per molti anni, perché fare l’insegnante mi sarebbe tanto piaciuto. E poi finalmente lo sono diventata, un’insegnante che cresce con gli studenti, che a volte impara a volte insegna, quasi sempre in contemporanea.
Eppure ogni tanto penso che avrei potuto metterci meno tempo, presa in una sorta di nostalgia “di casa”, che mi ha tenuta allo stesso tempo lontana e vicina al luogo dove volevo stare, in un gruppo di persone che cercano, crescono, fanno errori e riprovano e scoprono quanto siano preziosi questi errori, le chiavi di volta del cambiamento.
Sono però passata per una serie di esperienze diverse, direi “intermedie”, che si avvicinavano al mio scopo vero, autentico. Alcune di queste esperienze le ho accantonate, altre brillano ancora e mi chiamano sottovoce perché io le riprenda in mano.
Non è stato così semplice per me seguire il mio ikigai, quello che secondo la cultura giapponese è lo scopo della nostra vita oppure il “motivo per cui ci alziamo al mattino”.
Tu sai qual è il tuo?

Il motivo per cui alzarci al mattino

Ho letto di recente un libro che parla proprio di questo, della capacità di riconoscere il proprio ikigai, di abbracciarlo e di realizzarlo. Il libro si intitola Ikigai, il metodo giapponese. Trovare il senso della vita per essere felici (Bettina Lemke, Giunti)
Tanto per cominciare, il solo fatto di parlare di uno scopo nella vita – o il senso della vita – suona come una cosa “troppo grande”. Quando lo chiedo a qualcuno, le persone che mi rispondono, in genere tergiversano, si parano dietro a risposte che mi sembrano piuttosto giustificazioni, come se chiedessi qualcosa che non si può chiedere così a bruciapelo (devo lavorare, c’è crisi, i figli sono ancora piccoli, ecc).
Mi chiedo allora: è difficile ammettere che possiamo avere uno scopo, un desiderio profondo, un motivo preciso per cui ci alziamo la mattina? Anche se non siamo più ventenni?
Come se ci fosse una sorta di pudore, quasi una certa vergogna a dirsi: vivo per realizzare questo sogno. Non deve essere per forza il sogno di dipingere la Cappella Sistina, può anche essere quello di insegnare Mindfulness, costruire una casa, coltivare un orto, passare del tempo con le persone che ami, aiutare gli altri a capire come si fa una certa cosa, scrivere un libro, curare gli animali o imparare a suonare il pianoforte.
Se hai voglia di indagare a proposito del tuo ikigai, il tuo motivo personale e profondo per cui alzarti la mattina, puoi leggere il libro in questione – anche sotto l’ombrellone.
È un manuale teorico-pratico che ti conduce a scoprire, attraverso una serie di esercizi, la cosa per cui sei fatto. Mettendo insieme quattro aspetti diversi:

• ciò che ami
• ciò in cui sei bravo
• ciò di cui il mondo ha bisogno
• ciò per cui potresti venire pagato

Quindi, un misto di: passione, vocazione e missione; ciò che ami così tanto che esce da solo, e che si incrocia (dove possibile e pertinente) con ciò per cui potresti anche venire pagato e che ti darebbe – in tutto o in parte – da vivere.
Leggendo scopro che anche la scienza conferma che vivere secondo i propri desideri profondi, avere uno scopo (magari uno scopo di utilità collettiva), ci aiuta a vivere anche più sani e più a lungo.

Gli studi sono stati condotti in particolare sugli abitanti dell’isola di Okinawa, in cui pare che sia normale sapere quale sia il proprio ikigai, perseguirlo e coltivarlo fino in tarda età. È senz’altro un’isola dove la popolazione ha adottato uno stile di vita sano, un’alimentazione corretta e dove la gente si sente parte di una comunità, responsabile per se stessa, ma anche per gli altri. Insomma, credo che assieme al concetto di ikigai, siano importanti anche altri fattori, come essere consapevoli di ciò che si mangia, come si vive, e del fatto che non siamo entità singole, separate, indipendenti dagli altri. Ciò che facciamo coinvolge e condiziona chi ci sta vicino.
Ad ogni modo, è stato divertente fare gli esercizi proposti dall’autrice del libro, mi ha aiutata a cogliere le sfumature del mio ikigai, che è fatto anche di aspetti più sottili, che avevo solo intuito.

Senza ricetta

Continuo a pensare però che il mio ikigai – e quello di tutti noi – lo si può riconoscere anche tardi nella vita (non tutti hanno la capacità o la possibilità di perseguirlo fin da giovani), e anzi forse è un bene riconoscerlo quando siamo un po’ più maturi, forse ci aiuta a coltivare la capacità di rinnovarci e di assaporare le conquiste quotidiane.
Credo anche però, che fondamentalmente non ci sia una ricetta da seguire per incontrare noi stessi e la nostra autentica passione, ciò che ci fa essere noi stessi, al cento per cento.
No recipe” come dice Edward Espe Brown nel libro che porta questo titolo, la vita non ci dà una ricetta da seguire: quando cresciamo, siamo noi i diretti responsabili, in base agli ingredienti che abbiamo a disposizione (comprese tutte le risorse e i talenti che possiamo utilizzare) – siamo noi gli unici artefici del nostro “pane quotidiano”. Un pane che si fa con quello che c’è, piuttosto che con quello che ci dovrebbe essere. Un pane povero a volte, ma saporito, condito dal desiderio di farlo lievitare, senza fretta, permettendogli di respirare e di crescere a modo suo.

“Eppure, una volta presa coscienza di ciò che conta davvero nella nostra vita, perché la riempie di significato, come conseguire un certo risultato non è più l’elemento principale, in quanto ci sentiamo pervasi dall’intima sensazione di sapere perché stiamo facendo quella cosa. Dopo averlo messo a nudo, questo grande ‘perché’, produce per forza propria enormi risorse motivazionali. Avvertiamo accendersi in noi un entusiasmo, una smania, un impulso, un bisogno, siamo impazienti di darci da fare per realizzare obiettivi che corrispondono al nostro ikigai” (Ikigai, il metodo giapponese, pag.127)

7 thoughts on “Nessuna ricetta: un pensiero sul mio ikigai

  • Cara Elisa, è stato bello leggerti.
    Ho percepito tutta la tua delicatezza.
    Grazie ????

    • Elisa Quietroom

      4 Luglio 2018 at 12:21

      ciao Anna Maria!
      grazie di essere passata e di aver letto! E spero che ti possa essere utile. Un abbraccio!

  • Davvero grazie! ????

    • Elisa Quietroom

      5 Luglio 2018 at 7:33

      Cleme, grazie a te, magari un giorno mi dirai del tuo ikigai!

      • senz’altro e con piacere…intanto ho acquistato il libro che hai consigliato! un abbraccio ed un caro saluto!

  • Grazie Elisa belle riflessioni non ho risposte, ma mi sto facendo domande. Quando lo scopro te lo dico.

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