Se le certezze vanno in crisi

“Puoi sperimentare una teoria e infine sostenere che è proprio vera, ma è come quando una persona cresciuta e condizionata nel mondo cattolico ha visioni di Cristo. Ovviamente tali visioni sono la proiezione del proprio condizionamento; come quelle di coloro che sono cresciuti nella tradizione di Krishna, che hanno esperienze e visioni nate dalla loro cultura. 
Quindi l’esperienza non prova nulla. 
Riconoscere la visione come Krishna o Cristo è il risultato della conoscenza condizionata; quindi non è affatto reale, ma una fantasia, un mito, rafforzato dall’esperienza, e quindi del tutto illusorio. 
Perché abbiamo bisogno di una teoria e perché dobbiamo postulare una credenza? 
Questa costante affermazione di fede è un’indicazione della paura: paura della vita quotidiana, paura del dolore, paura della morte e dell’assoluta mancanza di significato della vita. Vedendo tutto questo ci inventiamo una teoria; e più la teoria è sofisticata ed erudita, più peso ha. E dopo duemila o diecimila anni di propaganda, quella teoria diventa invariabilmente e scioccamente “la verità”.
Jiddu Krishnamurti

Una provocazione

Notoriamente Krishnamurti ha scritto e parlato tutta la vita cercando di mettere in crisi le nostre certezze (quello che lui chiamava “il conosciuto”), anche attraverso discorsi come quello che ho riportato. 
È un modo provocatorio per scuoterci e svegliarci sul fatto che praticamente tutto ciò che crediamo vero – le nostre teorie su chi siamo noi, chi sono gli altri, cos’è giusto e cos’è sbagliato – deriva da dei condizionamenti, anche quando questi condizionamenti si basano su esperienze e prove sul campo. 
Prove che lui ritiene non valide per il semplice fatto che partono dal bisogno di dimostrare una teoria – una verità – precostituita, di cui a volte non ci rendiamo neppure conto.
Eppure questo modo di vivere è il modo comune
Basta prendere una affermazione qualsiasi che leggi sui social o che ti esce di bocca, e provare a chiederti: in che senso sto affermando questo? Che bisogno ho? Cosa voglio dimostrare, che vantaggio mi porta?

Fare luce sul conosciuto

La consapevolezza ci aiuta a fare luce sul “conosciuto”, semplicemente perché se puntiamo una luce sulle cose, queste si rivelano meglio.
E se, una volta viste, ci rendiamo conto che non servono, o peggio, ci fanno male (anche se erano “certezze”), forse vale la pena di rinunciarci.
La consapevolezza si può allenare, non contiene nulla di precostituito, è semplice presenza, come uno specchio che riflette ciò che ha davanti.  
Allora magari scopriamo che alcune di quelle emozioni difficili che ci tengono in pugno, quelle collegate a certe situazioni, o a certe persone – non sono altro che il prodotto di una certa mentalità che abbiamo costruito nel tempo (o ereditato dalla famiglia), e che invece di liberarci, ci limita.

La mindfulness non è fatta per “liberarci” dalle emozioni difficili o dalle idee precostituite; è fatta per vederle, per vedere le nostre certezze; e vederle già di per sé ci apre a infinite possibilità alternative, che non avevamo mai contemplato prima.
Un processo che è applicabile a qualsiasi campo della nostra vita, in particolare ai campi nei quali ci sentiamo bloccati o stagnanti.
Se siamo bloccati o stagnanti possiamo partire da lì e diventare più curiosi di quello che apparentemente non funziona: di solito alla base ci sono idee precostituite (certezze) ed emozioni coerenti con quelle idee, che senza che ce ne rendiamo conto, strutturano la nostra realtà.

Insomma, il lavoro di chi fa mindfulness è smontare, spacchettare, non crederci, ritornare al respiro, ricominciare, sorridere, smettere. 
Smettere.