Mille attività secondarie
Ogni tanto mi ritorna in mente una frase che mi ha sempre colpita, una frase contenuta in un bel libro illustrato con le foto di Danielle e Olivier Föllmi che si intitola Offerte.
Sono tanti anni che lo tengo su un tavolo a casa; l’ho anche più volte regalato alle persone cui volevo bene e anche adesso ogni tanto lo apro a caso per leggere qualche frase dei diversi pensatori, maestri e filosofi buddhisti. Una frase del monaco Matthieu Ricard dice: semplificare le nostre attività non vuol dire sprofondare nell’indolenza, bensì sbarazzarsi dell’aspetto più sottile della pigrizia: quello che ci fa intraprendere mille attività secondarie.
Ho sempre trovato questa frase molto vera per me; senz’altro una affermazione provocatoria e anche piuttosto scomoda soprattutto in una società come la nostra votata all’efficienza e alla produttività, dove riuscire a fare mille attività è considerato un valore e risolvere i mille problemi che ne derivano, una competenza importante.
Ci svegliamo alla mattina con una lunga lista di compiti da portare a termine e probabilmente già in ritardo per poterli affrontare tutti. Questo riguarda noi adulti, ma anche i bambini, che quando chiedo, in classe, chi di loro fa qualche attività il pomeriggio, alzano tutti la mano – magari anche entrambe le mani!
Perciò è naturale che viviamo tutti quanti con preoccupazione l’idea di aggiungere un’altra attività, anche se si tratta del non-far-niente di qualche ora di riposo (non posso riposarmi!) oppure di fare meditazione, il non-far-niente per eccellenza.
Eppure, il Mahatma Gandhi diceva più o meno che quando capiva che avrebbe avuto una giornata particolarmente impegnata, invece di meditare per un’ora, meditava per due ore.
Come a darsi un limite alla quantità di cose da fare nel tempo che ci è dato.
Non ho tempo
Il tempo è un concetto che abbiamo inventato noi, la suddivisione del tempo in anni, mesi, giorni, e così via, è una convenzione, un modo per darci un limite, per segnare il cambiamento ininterrotto del nostro vivere questa vita.
Ho sempre pensato che proprio quando ci diciamo di non avere tempo, è il momento in cui potremmo accorgerci che lo stiamo vivendo come se fossimo convinti di averne tanto, presi come siamo a portare a termine questo e quello, girare come trottole, indaffarati a tappare buchi e sbrogliare nodi, mentre il nostro prezioso tempo, quello dell’anima, se ne va, passa senza che neppure ci accorgiamo.
Perciò non è tanto il tempo in sé ad essere un problema (averlo o non averlo, come spesso ci diciamo) è il modo in cui lo viviamo, il modo di utilizzarlo.
Se questo modo produce serenità, o gioia; se navighiamo il tempo in un modo che ci rende felici, se facciamo cose che ci nutrono e ci fanno brillare gli occhi, o se frequentiamo persone cui vogliamo bene o con le quali c’è uno scambio vivificante.
Un’opera d’arte
La nostra vita è (o potremmo considerarla) niente di meno che un’opera d’arte. E per farne una vera opera d’arte, non ci verrebbe mai in mente che fosse necessario riempirla all’inverosimile, come se avessimo paura degli spazi vuoti, del silenzio e degli a-capo.
In ogni opera d’arte, dalla musica alla poesia, la creatività che occorre per realizzarla è fatta di pause, di momenti di vuoto, di respiro, di contemplazione. La danza ci chiede di aspettare l’attaco giusto per muovere il passo; la musica comincia con il silenzio che anticipa le prime note; la poesia è tutta una rinuncia alla parola non vera, la pittura si forma nella mente dell’artista, prima di essere proiettata la fuori, sulla tela.
E cosa dire della natura stessa, che non può fare a meno del tempo, per germogliare, fiorire e dare i suoi frutti.
Forse sappiamo già molto bene tutto ciò, allora perché continuiamo a ignorarlo?
Il vuoto e il pieno
Nella cultura orientale il tempo e le sue pause, i suoi vuoti, sono considerati tanto importanti quanto i pieni, i momenti del fare. E la forma – la vera esperienza – non può sorgere se non da una mancanza, un vuoto. Ma nella nostra modalità quotidiana, continuiamo a difenderci da questa “mancanza”, come se fosse il nemico numero uno. Come se non fare equivalesse a non essere, quando trovo che sia l’esatto contrario.
Usiamo il nostro fare per essere, per sapere di esserci e magari riuscire a tranquillizzarci un po’, a consolarci rispetto alle cose che cambiano e che non possiamo controllare, a sentirci stabili in un universo che non riconosciamo più.
Pensare e fare – fare e pensare diventano un modo di proteggerci dalla paura. E più siamo veloci nel fare, più abbiamo l’illusione di evitare la paura. La velocità ci distrae dalla consapevolezza di ciò che ci accade davvero e sembra salvaguardarci da un tempo vuoto che non sappiamo più gestire. Una noia che nessuno vuole più attraversare.
Molto banalmente: la velocità di botta e risposta sui social, la velocità di connessione alla rete, quanto tempo impiega un pacco con il corriere, quanto ci vuole a scaldare una tazza di acqua per il tè, quanto sono veloce a digitare i tasti del telefono, quanto posso calcare sull’acceleratore quando vado in autostrada.
E con il tempo che avanza da tutta questa velocità, cosa facciamo? Ognuno di noi avrà la sua risposta; certo è che se cominciassimo a non farci niente, forse avremmo guadagnato un po’ di vita vera.
20 Febbraio 2019 at 9:15
È un po’ che rifletto su questo tema e il tuo scritto mi ha dato diversi spunti. Grazie!
20 Febbraio 2019 at 9:23
Bene Patrizia, sarebbe bello se mi raccontassi anche le tue impressioni! Grazie infinite 🙂