Il giardino interiore

Qualche tempo fa, scrivevo ad una amica e collega di “viaggio”, che la mia vera natura è quella di artigiana e giardiniera. Sono cresciuta in bottega con un nonno artigiano e ho sempre amato la natura che parla attraverso orti e giardini.
Sono nata in campagna e, soprattutto ultimamente, mi sono resa conto di quanto sia importante per me riconoscere la mia appartenenza a questo mondo.
Quello che sto facendo ora, offrire la Mindfulness a me stessa e alle persone che incontro, può rappresentare una traduzione in chiave spirituale di queste attività: quando facciamo mindfulness “coltiviamo” semi di consapevolezza, che si spera attecchiranno e germoglieranno grazie al nostro lavoro di giardinieri dell’anima. Riconosciamo le “erbacce” dei pensieri tossici e delle emozioni che ci logorano e invadono il giardino e con pazienza (e riconoscenza!) le togliamo per lasciar respirare il terreno.
Innaffiamo con poesia e musica, concimiamo e ripuliamo, e ogni tanto ci sediamo in qualche angolo a godere delle cose che crescono e cambiano, anche solo con passi di formica.
Quando osserviamo il respiro, le sensazioni del corpo, i pensieri e le emozioni, entriamo delicatamente nel regno del non conosciuto, camminando piano come se ci trovassimo in un giardino rigoglioso e intricato, in cui osservare con occhi nuovi tutto quello che incontriamo.
È una avventura che richiede curiosità e disponibilità a imparare.

Una storia di semi e di attesa
Passano le stagioni e le cose cambiano, quello che sembra morto, poi si dimostra vivo – dice una poesia – e il nostro lavoro di giardinieri dell’anima continua, muta al mutare delle stagioni, a volte si incanta davanti ad un paesaggio o si addormenta per un po’ perché in fin dei conti anche noi siamo come alberi che d’inverno vanno a riposo.
Ogni tanto un seme importante viene piantato nel terreno fertile.
Durante uno degli incontri di meditazione del martedì, ho letto al gruppo di meditanti, la storia di quel tizio che entra in un negozio e trova Buddha dietro al banco*.
Ma lei è proprio Buddha in persona? – gli chiede – certo sono io, dice lui; accomodati, puoi liberamente guardare tra gli scaffali, leggere sui cartellini delle scatole che vedi, e prendere nota di ciò che ti occorre. Poi vieni qui con la tua lista e io ti darò gli articoli che chiedi.
Il tizio allora fa un giro tra le corsie del grande negozio e legge i cartellini: aria più pulita, pace  nel mondo, perdono, niente più guerre, compassione per il prossimo, e tanto altro. Scrive una lunga lista di articoli e si presenta da Buddha. Il Buddha allora legge la lista e comincia a trafficare alle sue spalle… quando si volta, il tizio si vede consegnare un gran numero di sacchetti colorati. E chiede: cosa sono tutti questi pacchettini? E il Buddha: sono le cose che mi hai chiesto, ma in forma di semi. Piantali, abbine cura, innafiali e strappa le erbacce. Un giorno cresceranno e daranno frutti. Tu forse non li vedrai, ne godranno i tuoi figli e chi verrà dopo di te. Ah, no! esclama il tizio, allora non li voglio, non a queste condizioni…

Questa storia mi ha sempre colpita, perché chi ha un giardino o un orto, sa che non è possibile pretendere di ottenere subito i frutti di ciò che viene seminato. E che la bellezza di curare un giardino consiste anche nell’attesa, nelle stagioni che cambiano, nelle pause, nelle rinascite e a volte anche nei fallimenti. A volte i semi che vengono seminati non germinano neppure, magari il terreno non è molto fertile, l’esposizione è inadatta per quei semi, c’è troppa acqua o troppo poca oppure è la stagione sbagliata.
Ma quando facciamo qualcosa – iniziamo una relazione, cominciamo un nuovo lavoro, facciamo un viaggio, eccetera – raramente ci ricordiamo di come funzionano le cose in natura. Raramente ci ricordiamo di essere parte della natura e dei suoi meccanismi di funzionamento. E ci scordiamo che non può portarci a niente pretendere di forzare i tempi o evitare la trasformazione di tutte le cose.
Questa stagione che sta arrivando, l’autunno, può esserci d’ispirazione: le cose hanno bisogno di rallentare, a volte anche di perdere vigore, frutti e foglie, di fermarsi un po’ e riposare. Non c’è niente di male nel fermarsi e nello smettere di “produrre”; a volte è l’unica cosa sensata che possiamo fare per noi stessi.
Per questo credo che tornare al giardino mi (ci) possa essere utile per ricordarci di come siamo, da dove veniamo e dove torniamo, nonostante tutti i tentativi del nostro (caro vecchio) ego.

Hai come l’impressione che potresti rimanere tutta la vita davanti ad un albero senza poterlo esaurire, senza poterlo capire, dato che non c’è niente da capire, c’è soltanto da guardare.
George Perec

*Dal libro “Le radici della felicità” di Ezra Bayda, ed. Ubaldini

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