…Diceva Nanni Moretti in Palombella rossa, e io mi trovo d’accordo: credo che le parole che scegliamo per raccontarci la vita facciano la differenza. Sia quando stiamo bene, che quando invece le cose non vanno per il verso giusto.
Pensiamo ad esempio ai momenti in cui c’è un conflitto in atto: il solo fatto di non essere d’accordo con qualcuno, non significa che la comunicazione debba trasformarsi per forza in un litigio. Rimanere consapevoli durante una discussione ci permette di scegliere le parole in modo da non creare le condizioni per una escalation, in cui nessuno esce “vincente”, parola di chi l’ha provato sulla propria pelle 😉
Questa consapevolezza inizia da noi. Chiederci per esempio che cosa sentiamo mentre ascoltiamo le parole di qualcuno con cui non siamo d’accordo: le sensazioni corporee che avvertiamo e le emozioni che vengono a galla, come la frustrazione, la paura o la rabbia.
Riuscire a fermarci un momento per tornare al respiro, al cuore che batte, per riconnetterci alle intenzioni che ci portano a confrontarci con questa persona: stiamo forse discutendo per ottenere qualcosa? Quanto siamo attaccati al risultato da 0 a 10? Forse lo possiamo dire a noi stessi, per capire quanto vorremmo che l’altra persona cambiasse idea/atteggiamento o quanto vorremmo dimostrare di “avere ragione” (e che l’altro ha torto).
Se ci sentiamo arrabbiati o agitati, accorgerci del nostro stato: sono confusa, sono agitata – e quando lo siamo, sappiamo che potremmo dire cose che feriscono, di fronte alle quali probabilmente l’altra persona risponderà con la stessa moneta.
Avere la capacità di dire onestamente ciò che pensiamo, senza ferire e soprattutto senza giudizio, è forse una delle cose più difficili che io abbia mai sperimentato. Parlare senza aspettarsi per forza che l’altra persona cambi, che mi dia ragione, senza aspettarmi un risultato, ma parlando dal centro (calmo) di me stessa, piuttosto che dalla periferia vorticosa e confusa del tornado, è una pratica molto complessa. Ma estremamente utile.
E anche quando l’argomento stesso è disagevole, quando so che l’altra persona forse non lo accoglierà tranquillamente, provare ad affrontarlo con gentilezza e presenza, nonostante tutto.
Le 4 porte
Secondo una certa visione attribuita a diversi pensatori (ci sono mille attribuzioni diverse, tra cui di sicuro un verso del Vaca Sutta e del Subhasita Sutta, nel canone buddhista) ci sarebbero 4 “porte” che ci permettono di affrontare con equilibrio e rispetto la comunicazione. Queste porte sono delle domande che possiamo farci prima di aprire bocca:
- È vero quello che dico?
- È necessario?
- È gentile?
- Lo sto dicendo al momento giusto?
Anche solo la prima delle quattro (“è vero?”), costituisce di per sé un filtro efficacissimo alle nostre parole. Questo perché è raro che quello che asseriamo sia vero in assoluto, potrebbe essere solo una nostra percezione, un nostro desiderio, un’idea di come dovrebbero essere le cose se fossero giuste, corrette.
Anche quando parliamo a noi stessi, il fatto di dirci una cosa banale, come: “sono pigra”, se ci pensiamo bene può darsi che derivi dal fatto che negli anni mi sono abituata a considerarmi tale, oppure qualcuno me l’ha detto molti anni fa e io non l’ho più messo in dubbio, oppure può essere una strategia che adotto per sentirmi più sicura e protetta… ad ogni modo, molto raramente sappiamo di per certo che le cose “stanno così”.
Se poi ci riferiamo ad un’altra persona, diventa tutto veramente più complesso: sappiamo veramente senza ombra di dubbio che questa persona è fatta come crediamo che sia fatta? Sappiamo veramente perché si comporta come si comporta? Forse no.
Il dubbio che le cose potrebbero non essere come noi le affermiamo, ci dovrebbe perciò aiutare a ridimensionare le nostre pretese e adottare un atteggiamento più aperto e curioso.
È necessario dire quello che sto per dire? A volte parliamo per colmare un vuoto, per riempire un senso di solitudine, perché siamo annoiati, perché ci piace la chiacchiera. Qui mi viene in mente il rutilante mondo dei Social, in cui la chiacchiera non necessaria è la normalità. Dove siamo continuamente distratti da noi stessi, per rincorrere altre cose da vedere, da sfogliare, da cliccare. Allora forse possiamo fare un po’ di ordine, come quando ripuliamo gli armadi: questa cosa che sto per dire è veramente necessaria? Posso farne a meno, e se ne faccio a meno, la mia vita come cambia? Sono sicuro che dalla cosa che sto per dire dipenda tutta la mia felicità (o la felicità dell’altro)?
È gentile quello che sto per dire? E qui mi viene in mente una frase del Dalai Lama, che dice: be kind whenever possible. It is always possible – sii gentile ogni volta che è possibile: è sempre possibile.
Provare cioè a rispettare la persona che riceve le nostre parole e porgerle con “tocco leggero”, con cura. Non si tratta di essere solo cortesi o educati, la gentilezza va ben oltre e si prende cura di ciò con cui entra in contatto. Per ricordarci ogni tanto di fare quello che i testi ci suggeriscono: scambiare il nostro posto con quello dell’altro. Per vedere l’effetto che fa.
Lo sto dicendo al momento giusto? Magari no, forse lo sto dicendo adesso perché sento l’urgenza di risolvere la situazione. Mi voglio liberare di questa fastidiosa sensazione di instabilità, di incompiutezza. Mi sento “in pericolo” e voglio aggiustare la situazione, quindi mi precipito a rovesciare addosso all’altro tutto quello che ho sullo stomaco, così forse dopo le cose andranno meglio.
Non sto dicendo che sia giusto tenere dentro le cose per lungo tempo, così possiamo far del male a noi stessi, ma forse possiamo concederci qualche bel respiro profondo e chiederci se l’altro è davvero disponibile ora ad ascoltarci o forse possiamo aspettare e lasciare che le cose decantino un po’.
Quando lo facciamo – quando lasciamo decantare un po’ – può darsi che le cose dentro di noi cambino, che i motivi di urgenza si trasformino, che noi acquisiamo una prospettiva diversa, che fino ad allora non avevamo considerato. E nel frattempo avremo coltivato la pazienza, quella che non si aspetta che là fuori le cose cambino, ma quella che entra in campo quando desideriamo davvero il bene per noi stessi e per gli altri.
Secondo il Buddha
Uno dei punti del Nobile Ottuplice Sentiero buddhista, il terzo per la precisione, è proprio la “retta parola” (o parola perfetta/completa). Dentro alla retta parola convivono diversi aspetti di ciò che nella visione buddhista viene considerato il parlare in modo vero, autentico.
- non mentire
- non parlare alle spalle (non fare pettegolezzi)
- non parlare inutilmente (non usare parole non necessarie/oziose)
Il non mentire è più di un non dire cose false di proposito; assomiglia al primo punto delle quattro porte, è più un “non giudicare”: dato che non possiamo essere davvero sicuri che quello che affermiamo sia vero (ma invece lo crediamo ciecamente), accade che spesso mentiamo, giudichiamo noi stessi e agli altri.
Se per esempio io mi dicessi “ non capisco nulla di matematica”, questa potrebbe essere una bugia, perché non è vero che non capisco assolutamente nulla di matematica, ma nella mia idea, siccome fatico a capirne i concetti e ad applicare le regole, mi convinco di non essere tagliata per la matematica e di non poterla capire MAI.
Il modo in cui noi parliamo a noi stessi e di noi stessi, si riflette nel modo in cui parliamo degli altri, e questo potrebbe diventare una trappola, in particolare nelle nostre relazioni.
Secondo la CNV
Accanto ai suggerimenti che vengono dal mondo buddhista, negli ultimi anni ho avuto il piacere di accostarmi anche alla CNV, la comunicazione empatica/non violenta di Marshall Rosenberg.
Rosenberg (psicologo e mediatore di conflitti scomparso nel 2015) ha dato vita a numerosi programmi di pace in paesi lacerati da conflitti: ex Yugoslavia, Irlanda del Nord, Medio Oriente, Africa e Israele.
Nella ex Yugoslavia ha formato decine di migliaia di studenti ed insegnanti tramite un programma sostenuto dall’Unesco e ha fatto parte del Comitato di patrocinio del Coordinamento internazionale per il Decennio delle Nazioni Unite.
La CNV ci educa a far riferimento alla catena di esperienze –>emozioni –>bisogni –>richieste attraverso cui possiamo trasformare concretamente il nostro approccio alla comunicazione (anche quando comunichiamo verso noi stessi).
Ci aiuta cioè a collegare ciò che ci accade al modo in cui ci sentiamo; e il mondo in cui ci sentiamo al fatto che un nostro bisogno venga/non venga riconosciuto e soddisfatto; e che questo bisogno eventualmente insoddisfatto possa essere riconosciuto attraverso ad una richiesta concreta al nostro interlocutore.
Un processo molto efficace e (apparentemente) semplice, che ci rivela perlomeno quanto invece la nostra comunicazione abituale/automatica possa essere intrisa di strategie: io ti dico questo per ottenere quell’altro. Perché voglio avere ragione, perché avere ragione è rassicurante, ma probabilmente non fa la felicità.
Ovviamente servirebbe un po’ di tempo per entrare davvero dentro al cuore della CNV; anche la comunicazione empatica però ammette che può darsi che dall’altra parte, nel campo dell’esperienza di vita del mio interlocutore, non ci sia né la consapevolezza dei suoi processi interni, né la volontà di trovare un terreno comune attraverso la comunicazione.
Saper comunicare è prima di tutto qualcosa che facciamo per noi stessi, per nutrire la nostra vita, per trovare il terreno di connessione con ciò che siamo noi nel momento presente.
Poi possiamo tentare con gli altri, con la consapevolezza che dall’altra parte la storia possa essere molto diversa, ma ugualmente degna di rispetto e cura.
9 Dicembre 2017 at 7:44
Oh, ma che bello passare da qui e trovare una parola chiave per me importante in questo periodo, o almeno ci provo: GENTILEZZA. Telepatie? Sintonie? Coincidenze? Comunque sia, questo post devo stamparmelo. La comunicazione, che fatica… quella vera e sincera intendo. Grazie Elisa, as usual!
9 Dicembre 2017 at 7:46
E poi di quanta violenza sono fatte le nostre parole, anche negli scambi in famiglia e nel quotidiano… punto dolente. Non vogliamo aggressività, ma a volte quella rabbia e quella carica aggressiva parte proprio da noi. E a volte penso che pur avendo avuto il dono della parola, non sempre ne ho la consapevolezza. Lo so, sono pensieri densi i miei… Grazie anche per lo spunto di riflessione.
10 Dicembre 2017 at 21:39
Davvero, Clara! Che fatica comunicare con gentilezza a volte, che conquista il tocco leggero, la bellezza e la verità in quello che diciamo. È il lavoro di una vita!
E invece io vorrei ringraziare te e la tua Grammatica di Bombay per il lavoro di cesello sulle parole: ce ne sono di così potenti e rivelatrici, da togliere il fiato. Grazie di cuore!